Ritratti di Santi, 2012

Era il 1567. Ad Annecy, residenza abituale del Duca Giacomo di Savoia, stava per giungere Anna d’Este, sua promessa sposa. Per sua insistente richiesta, il Duca aveva acconsentito, eccezionalmente, ad esporre alla pubblica venerazione dei fedeli il tesoro di famiglia più sacro: quella Sindone che oggi è custodita nel Duomo di Torino.
Tra i pellegrini che accorsero da ogni parte per conoscere la nuova principessa, ma soprattutto per venerare la più celebre reliquia della cristianità, c’erano i Signori de Boisy, della famiglia di Sales.
Françoise de Boisy, giovanissima, era incinta del suo primo figlio e lì – prostrata davanti a quella sacra tela che così eloquentemente le parlava della passione del Figlio benedetto di Dio – si sentì commuovere al pensiero del bimbo che portava in grembo. Fece dunque una promessa: quel bambino doveva appartenere a Gesù per sempre. Lei lo avrebbe ricevuto solo in custodia, ma lo avrebbe educato per Lui e poi glielo avrebbe donato.
Fu una di quelle preghiere intense e totali che salgono a volte dal cuore delle madri cristiane. Esse sono in grado di generare dei santi se la preghiera continua poi instancabilmente nel tempo e diventa quotidiana pedagogia.
Il piccolo Francesco di Sales si trovò così a vivere in un ambiente privilegiato e sempre pronto a ricevere le grazie divine.
Raccontano che la prima frase completa che riuscì a formulare fu questa: «Il buon Dio e la mamma mi amano molto».
«Dio e la mamma…»: frase da bambino, certo, ma già così armoniosamente equilibrata! Fatto è che Francesco è celebre nella Chiesa come il santo che più dolcemente di ogni altro saprà legare tra loro, nella vita e negli insegnamenti, la natura e la soprannatura, l’umano e il divino.
Il padre intanto garantiva che il fanciullo crescesse come un gentiluomo del tempo: accurata istruzione, equitazione, scherma, danza… e soprattutto una lealtà a tutta prova. Francesco aveva una rara fortezza d’animo e di carattere.
Venne educato nei più celebri collegi della zona, e aveva poco più di undici anni quando in compagnia di un precettore fu inviato a Parigi, nel collegio di Clermont, tenuto dai padri gesuiti.
Durante il lungo viaggio, il bambino si rese conto per la prima volta della tragedia del suo tempo: Lione, Bourges, Orléans mostravano le ferite lasciate dalle guerre di religione: chiese devastate, cattedrali spogliate delle statue dei santi, resti bruciacchiati di celebri statue della Madonna, di cui il popolo era stato un tempo così devoto.
A Parigi, Francesco vi resterà un decennio circa, frequentando le prime tre classi di «Grammatica», poi i corsi di «Umanità e Retorica», poi quelli di «Arti» fin ad ottenere il titolo di Dottore che allora serviva solo ad aprire le porte dell’Università.
Per conto suo Francesco provava invece una invincibile passione per le scienze sacre.
Che valeva amare Dio (e Francesco sentiva di amarlo con tutto il cuore) se Dio lo aveva da sempre destinato alla dannazione? se Dio sapeva da sempre non poteva non saperlo che lui Francesco si sarebbe dannato? Chi poteva garantirgli di appartenere al «piccolo numero degli eletti»?
Queste angosce possono sembrare strane a chi non si lascia nemmeno sfiorare dal pensiero della sua eterna salvezza, o a chi si richiama alla misericordia di Dio con eccessiva faciloneria; ma sono profonde per chi ama davvero Dio e ne percepisce tutta la immensa grandezza e libertà, paragonate alla propria miseria e alla propria incostanza e inconsistenza.
«Salvami o Dio, perché le acque hanno sommerso la mia anima!».
Ma intanto Dio andava insegnando alla sua anima i profondi segreti dell’amore disinteressato.
‘Confida figlio, io non voglio la morte del peccatore, ma che viva… Io ti ho creato per la mia gloria, come tutte le altre creature. Non desidero che la tua santificazione e non odio nulla di ciò che ho creato. Perché è triste la tua anima, e perché è turbata? Spera in Dio… Egli è il tuo Dio e il tuo Salvatore’».
Francesco imparò, radicalmente e una volta per tutte, cos’è l’amore, quando ci si dona senza alcuna condizione, senza alcuna pretesa, per solo e puro amore.
Molti anni dopo egli scriverà per tutti i cristiani un Trattato dell’amor di Dio in cui spiegherà che l’amore vero non vuole guadagnare nulla: si dona e basta.
L’università di Padova.
Rifiutò la fidanzata, trattandola con perfettissima cortesia. Rifiutò anche il titolo di Senatore.
Intanto altri amici che sapevano del suo desiderio di consacrarsi a Dio – senza che egli ne sapesse nulla – ottenevano per lui, da Roma, la nomina a prevosto del capitolo di Ginevra, in pratica la carica più prestigiosa della diocesi dopo quella del vescovo.
Francesco aveva già tutta la preparazione necessaria per accedere al sacerdozio: studi di teologia.
Celebrò la sua prima Messa il 21 dicembre 1593 a ventisei anni. «Durante quel primo sacrificio – confiderà poi – Dio prese possesso della mia anima in maniera indicibile».
«Bisogna riconquistare Ginevra!».
«Con la carità bisogna abbattere le mura di Ginevra, con la carità bisogna invaderla, con la carità bisogna riconquistarla… Non vi propongo né il ferro né quella polvere il cui odore e sapore ricordano la fornace infernale… Che il nostro accampamento sia l’accampamento di Dio…».
Lo Chablais, la regione che costeggia a nord il lago Lemano e a sud i monti di Faucigny, e che ha per capitale Thonon.
Si calcolava che su circa venticinquemila abitanti della regione, i cattolici fossero appena un centinaio. Solo la carità di un apostolo poteva vincere…
Il freddo, la neve, la fame, il rifiuto di ospitalità: villaggi e villaggi in cui non si apriva nemmeno una porta. Una notte, in cui non riuscirono a tornare in tempo al castello, i due missionari dovettero rifugiarsi su un albero, legati con una cinghia, perché addormentarsi significava cadere tra le denti dei lupi, che ululavano in basso. Sembra di raccontare favole, fu invece la dolorosa quotidiana realtà che si protrasse per mesi.
Nel Natale dell’anno 1596, Francesco decise di rompere gli indugi. Fece erigere un altare e celebrò le sue tre sante messe di Natale: a mezzanotte, al mattino e in pieno giorno.
Non mancarono ribellioni e minacce, anche armate. Francesco riuscì a tenere tutti a freno «con la maestà del suo volto e la dolcezza delle sue parole».
Dopo due anni di Francesco di Sales, dei calvinisti di prima son rimasti appena una centinaia.
Quanto a fondo e quanto lontano egli sia andato, nella sua opera di evangelizzazione, lo prova il fatto che riuscì perfino a recarsi a Ginevra a incontrare Teodoro Beza, successore di Calvino e lo condusse fino alla soglia della conversione, facendogli ammettere – con argomentazioni dolci, ma serrate – tutte le principali verità cattoliche.
Si sa con certezza che Teodoro riconobbe fin dalla prima volta «che nella Chiesa romana ci si può salvare, e che essa resta comunque la Chiesa Madre». Ma si ostinò sulla dottrina protestante che «la fede salva senza le opere».
Disse: «Voi (cattolici) invischiate le anime in troppe cerimonie e difficoltà: dite che le buone opere sono necessarie per la salvezza, mentre non sono altro che buona creanza».
Francesco gli ricordò la scena evangelica dell’ultimo Giudizio (in cui Gesù parla delle opere di misericordia in favore dei poveri, degli affamati, dei carcerati ecc.) e chiese: «se si trattasse solo di buona creanza, saremmo puniti così rigorosamente per non averle fatte?».
Non riuscendo a rispondere, Beza «scongiurò il signore di Sales di tornare spesso».
Sappiamo che Francesco lasciò intravedere al Papa una imminente conversione del patriarca di Ginevra e ci furono delle offerte concrete da parte della Santa Sede per garantire anche la sua sistemazione dopo l’abiura.
Nel 1599 Francesco ricevette la nomina a Coadiutore di Annecy-Ginevra. Di fatto poteva agire a nome del vecchio e malato vescovo, anche se l’ordinazione episcopale gli verrà conferita solo alla morte di lui.
Inizia comunque la sua azione a livello europeo. La prima missione diplomatica lo vede a Parigi.
Predica la quaresima del 1602 al Louvre, nella cappella della regina, davanti a principesse e cortigiani, e non mancano i calvinisti.
È uno strano predicatore che non si affida alla teatralità del gesto e della voce, né alle espressioni sovraccariche – secondo la moda del tempo – ma solo alla bellezza e alla dolcezza della verità.
Tanto che alla fine del quaresimale – senza che egli abbia nemmeno una volta parlato contro i calvinisti – abiura nelle sue mani una dama di corte ritenuta irriducibile, Madama di Padrauville, la cui cultura è tale che nemmeno i teologi più acuti del regno sono mai riusciti a metterla in confusione.
Colui che è considerato il più dotto predicatore del tempo, il futuro Cardinale du Perron, commenta: «Se si tratta di convincere i calvinisti, io forse potrei riuscirci; ma se si tratta di convertirli allora mandateli dal Monsignore di Ginevra».
Venne consacrato vescovo l’8 dicembre 1602.
I problemi della diocesi non gli lasciavano respiro. Sempre apostolo: Si dedicava per esempio, perché «gli dava gioia», ha spiegare il catechismo ai bambini.
«Un Ordine che avrà come caratteristica la dolcezza e la carità di Cristo».
Nacquero così le Visitandine che – come dice il loro nome – avrebbero dovuto portare nel mondo la tenerezza della Vergine.
Francesco morirà, nella piena maturità, a soli cinquantacinque anni.
Scrisse dunque l’Introduzione alla Vita Devota e il Trattato dell’Amore Divino.
Il comandamento di amare Dio con tutto il cuore è dunque basato su una inclinazione naturale assopita nel fondo del nostro essere… Basta risvegliarla in qualunque modo che subito «la naturale primitiva inclinazione ad amare Dio, che era come assopita e impercettibile, si risveglia all’istante.. .come una scintilla che dorme sotto la cenere».
Questa è la visione – piena di sereno ottimismo, di vero «umanesimo» – che Francesco ha dell’uomo.
Perché quella scintilla divampi, basta che l’uomo usi la sua libertà «per aderire a ciò che è vero, bello, e buono» che gli viene incontro come una Grazia sempre più attraente.
A partire da questa adesione, sempre più gli apparirà quel Volto che unicamente e totalmente è degno di amore: l’umanesimo ha al suo vertice l’incontro mistico.
L’immagine che Francesco ha di questo vertice è tipico della sua visione dell’esistenza. È l’amore di chi si affida in maniera pura e disinteressata a Dio in qualunque circostanza della vita, anche la più incomprensibile e dolorosa.
Così egli porta l’esempio della figlia di un bravissimo medico chirurgo tormentata dalla malattia.
Al padre che le chiede se accetta di essere operata da lui, la bambina risponde: «Padre mio, io sono tua, e non so che cosa debbo volere per guarire, pensa tu, fa’ quel che giudichi necessario, a me basta amarti con tutto il cuore come faccio…». E mentre il papà la opera dolorosamente (allora non esisteva l’anestesia!), la piccola con gli occhi fissi sul volto paterno ripeteva dolcemente: «mio padre mi ama, ed io sono tutta sua» (L. X, cap. 115).
Così, come un uomo venerabile rimasto sempre bambino nelle mani di Dio, morì Francesco. Era la festa dei Santi Innocenti del 1622.
Il 24 gennaio 1623 il corpo mortale del Santo fu traslato ad Annecy, nella chiesa oggi a Lui dedicata, ma in seguito fu posto alla venerazione dei fedeli nella Basilica della Visitazione, sulla collina adiacente alla città, accanto a Santa Giovanna Francesca di Chantal. Francesco di Sales fu presto beatificato il giorno 8 gennaio 1662 e già tre anni dopo venne canonizzato il 19 aprile 1665 dal pontefice Alessandro VII. Successivamente fu proclamato Dottore della Chiesa nel 1877, nonché patrono dei giornalisti nel 1923.