La Romanità
Conferenza tenuta dal Rev.mo Monsignor Schmitz,
Gricigliano Capitolo Generale, agosto 2008
Reverendo Rettore, miei carissimi confratelli,
Monsignor Wach mi ha domandato di parlarvi oggi di una caratteristica del nostro Istituto, che è come il riassunto di quello che noi vogliamo riconoscere come la causa della nostra origine, voluta dal nostro Fondatore e nostro Cofondatore nella storia dell’Istituto: è la Romanità.
- Introduzione
In effetti, come voi sapete, ci domandano spesso che cos’è che distingue il nostro caro Istituto dalle tante realtà tradizionali. Non c’è niente di male nel trovare alcuni tratti significativi, come ad esempio la nostra vita canonicale, testimoniata dall’abito corale; la chiara spiritualità benedettino-salesiana; la nostra massima, «Veritatem facientes in Caritate», che noi cerchiamo umilmente di vivere; ed infine, il nome di Cristo Re, festeggiato principalmente nella solennità liturgica, esortandoci ad esprimere il nostro attaccamento alla grande tradizione liturgica di tutta la Chiesa.
Ma tutto questo e molti altri tratti del nostro Istituto che ci danno un’identità comune molto chiara, sono contenuti nel concetto di Romanità. E per comprendere meglio il significato di Romanità, vi darò innanzitutto una breve idea di questo concetto nella latinità classica, poi vi parlerò della Romanità nella Chiesa del Signore in generale, concetto sviluppato soprattutto dopo il Concilio di Trento nella discussione con le sette protestanti e, per finire, cercherò di applicare modestamente queste caratteristiche nella vita dell’Istituto, come si presentano a noi.
Per prima cosa, il concetto di Romanità nella teologia è relativamente recente. Se voi voleste approfondire il soggetto, potreste sfogliare «De locis theologicis» di Melchior Cano; potreste dare un’occhiata anche ai manuali ecclesiastici della grande scuola romana del XIX secolo. Ma molto prima, al tempo della latinità classica, non si ha probabilmente avuto il concetto, bensì la realtà vissuta della Romanità.
Per un buon numero di storici moderni, il concetto di «romanitas» è all’origine della famosa «gravitas romana», cioè l’abnegazione disinteressata per la gloria dell’impero romano. Quello che spiega per gli storici di altri tempi, come Erodoto, la possibilità di sacrificarsi per un ideale di impero che non corrisponde al nostro benessere personale. Tutto questo ha fatto che, soprattutto durante la Prima Repubblica, poi durante l’Impero sotto Augusto, le grandi famiglie vivessero una vita virtuosa per dare tutti i loro beni a Roma, perché sapevano che avevano ricevuto tutto dalla città eterna, che rappresentava tutti i popoli romani. La tesi di Charles Norris Cochrane (1889–1945) recita per esempio che: «In questo spirito, in un momento critico per la civilizzazione occidentale, Virgilio dà la sua interpretazione della storia e del destino della Città Eterna…».
La Romanità, in questo caso, è più che un sentimento individuale, non è un’appartenenza nazionale. Romanità significa che Roma, come città, come impero, ha un destino per tutta l’umanità.
Dopo alcune evoluzioni, nacque nell’impero greco-romano, poi nell’impero bizantino un concetto più profondo di Romanità, un concetto che si avvicinava già a quello che la Romanità significa per noi. La Romanità, il sentimento contenuto di vivere nell’Impero, in una certa «gravitas» romana, fatta di dedizione e di sacrificio, diventa un «sistema organizzato di vita». Non è solamente un ideale, ma si trasforma nella vita quotidiana, in un protocollo di relazioni sociali, in una concezione della missione e della cultura romana per il mondo intero.
Come sistema di vita organizzato destinato all’inizio a civilizzare i barbari, nella tarda latinità, poi a portare la fede cristiana nel mondo, la Romanità diventa un concetto che potrà essere sviluppato più tardi dai teologi della scuola romana.
Pertanto, sarebbe un errore insinuato dal protestantesimo liberale del XIX secolo e da alcuni modernisti cattolici, con qualche eccezione, pensare che la Romanità, e con lei, il cattolicesimo, è stata creata per stabilire una relazione fra Roma e la Chiesa Cattolica. Ad esempio, questa teoria pretende che dopo una fondazione ben differente, la Chiesa si sia legata all’impero romano, che le ha portato in dono la Romanità. Questa erronea opinione stata difesa da Auguste Renan e da Adolph Harnack.
Certamente, non si discute sul fatto che Roma e l’impero romano abbiano donato provvidenzialmente molti mezzi alla Chiesa per evangelizzare e propagare la cultura, ma l’essenza della Romanità è già presente prima della fusione della religione cattolica con l’«Urbs Romana». Il cattolicesimo esisteva già alla fondazione della Chiesa da parte di Nostro Signore.
La Chiesa non è cattolica e romana, per merito di Roma, ma Roma è il mezzo provvidenziale per dimostrare al mondo la visione divina ed universale della Chiesa cattolica. In questo senso, il papa Pio XI scrisse in una lettera al cardinal Gasparri, al tempo della famosa controversia sul concordato del Laterano nel 1929: «L’Universalità si incontra già di diritto e di fatto all’inizio della Chiesa e della predicazione apostolica. Grazie all’opera degli Apostoli e degli uomini apostolici, questa sarà velocemente diffusa fuori dall’impero romano…».
La Chiesa romana, e dunque la Romanità, non si limita ai confini dello storico impero romano, ma è una realizzazione del disegno divino per il cattolicesimo, molto più vasto dell’impero. In questo modo, noi sappiamo che dopo la conversione dell’Impero romano al cattolicesimo, fu piuttosto la Chiesa a sostenere la Romanità dell’Impero, che il contrario. Dobbiamo dunque difenderci da un’idea che pretende che la Romanità della Chiesa derivi dal grande numero di mezzi prestati alla Chiesa dall’impero romano per portare la cultura cattolica universale nel mondo universale.
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La Romanità della Chiesa cattolica
Diamo un’occhiata più da vicino alla Romanità della Chiesa cattolica. Anche qui bisogna fare una precisazione. Per definire la Romanità del nostro Istituto secondo il nostro carisma, dobbiamo riconoscere che noi non siamo nient’altro che uno specchio della Chiesa cattolica. Noi non intendiamo essere la Chiesa. Non vogliamo nemmeno essere un gruppo particolare che realizza cose diverse da quei tesori che la tradizione della Chiesa ci dona.
La Romanità dell’Istituto è solamente un riflesso della Romanità della Chiesa intera, legata naturalmente a Pietro e alla sua supremazia sulla Chiesa, come vescovo di Roma.
In effetti, noi leggiamo nella terza parte della Somma Teologica, al punto 35 articolo 7 ad tertium: «Jesus Christus, ut suam potestatem magis ostenderet, in ipsa Roma, quae caput mundi erat, etiam caput Ecclesiae suae statuit, in signum perfectae victoriae, ut exinde fide derivaretur ad universum mundum». Qui abbiamo la visione cattolica del legame fra Roma e la vera Chiesa. Non è Roma che costruisce la vera Chiesa, ma è il Signore che utilizza Roma «in signum perfectae victoriae», per mostrare all’intera Chiesa ed al mondo universale la vittoria della fede cattolica, fondata sul capo della Chiesa, Nostro Signore Gesù Cristo.
Bossuet ha scritto un opuscolo di teologia controversa, che va nella solita direzione e si chiama «de Excidio Babylonis apud S. Joannem demonstrationes adversus Samuelem Verensfelsium», una famosa controversia la cui Appendix tertia è la seguente: «Nec immerito ab eodem Leone, – Leone Magno – tanta fiducia toto orbe laudante et approbante dictum: Romam per beati Petri sedem caput orbis effectam…», e non il contrario. Roma è diventata il primo trono di Pietro, che è stato inviato dal Singore. «Unde Prosper – continua Bossuet – cecinerit illud heroicum: Sedes Roma Petri, quae pastoralis honoris facta caput mundo, quidquid non obtinet armis religione tenet.»
Dunque, quello che Roma non ha mai potuto fare attraverso le armi, lo fa attraverso la religione: essa domina tutto l’universo. Il cattolicesimo, l’universalità di Roma e la Romanità discendono dalla Chiesa cattolica fondata da Nostro Signore e stabilita a Roma, perché Roma stessa sia strumento di vittoria. «Audiat ab ipso Cypriano agnitam et commendatam Petri cathedram et Ecclesiam principalem, unde unitas sacerdotii exorta sit. Erat ergo a primis usque temporibus in Petro stabilita Ecclesiarum Princeps, qua Preside vigeret consensio et communio omnium Domini sacerdotum.» Le numerose chiese che si trovano a Roma, vi si concentrano grazie all’opera di Pietro.
L’importanza di questa unione fra Pietro e la Romanità è stato l’oggetto di molte riflessioni teologiche, specialmente, come ho già detto, dopo il Concilio di Trento e nel XIX secolo.
Ascoltiamo come riassunto di queste riflessioni le parole di Melchior Cano, in «De locis theologicis»: «Tutti hanno attaccato questa fortezza di verità, sono state utilizzate tutte le armi contro di lei, ma il Pontefice non è stato vinto, e la sua autorità non ha potuto essere trasferita ad altri, che, allontanandosi da Roma, diventano dei dissidenti davanti a tutta la Chiesa. A questa Romanità è legato l’apostolato; è questo il motivo per il quale le chiese che si sono staccate non si chiamano più apostoliche. A questa Romanità sono legate invisibilmente le caratteristiche della vera Chiesa di Gesù Cristo». A questo punto, notiamo che la Romanità non è un concetto della Chiesa come tutti gli altri, ma è la somma di tutte le caratteristiche. È per questo motivo che tutti gli eretici hanno sempre attaccato l’epiteto «romano» per la Chiesa del Signore, perché hanno sentito che tutto è contenuto in questo marchio della Chiesa. E un famoso rappresentante della Scuola Romana, Padre Mariano Cordovani esprime anche lui questa verità «Solamente colui che avrà trovato e riconosciuto la vera Chiesa potrà capire che essa è romana. Per questa ragione, più che un mezzo di ricerca, la Romanità è un risultato, una conquista che non si può prendere come punto di partenza».
Possiamo mettere in evidenza l’apostolicità della Chiesa, possiamo provare l’unità della Chiesa ,e stabilire così dove si trova la vera Chiesa del Signore, ma tutto questo, si unisce nella Romanità, dalla fede nella Chiesa.
Ed è per questo che anche coloro che si considerano «tradizionali», appena subiscono un affievolimento della loro fede nella divinità della Chiesa, iniziano ad avere dei problemi con la Romanità. Non sto parlando di gallicanesimo o di febrionanismo primitivo ma delle sottigliezze di coloro che diffidano di Roma, che vogliono cambiare lo stile di Roma, le cui debolezze umane vanno contro la grande tradizione e lo spirito romano, che hanno difficoltà con il papato, perché non è mai abbastanza tedesco, mai abbastanza americano, mai abbastanza francese…Tutto questo mostra un affievolimento della fede nella Chiesa, perché questa fede deve condurci alla Romanità, realizzazione della volontà di Dio per la sua Chiesa.
Chi crede nella divinità della Chiesa e nella sua costituzione apostolica, voluta in Pietro dal Signore in persona, comprende che la perfezione della Chiesa consiste propriamente nella sua Romanità. La Romanità della quale parliamo, non è il frutto di una situazione storica o locale, ma è molto di più, è come il riassunto dell’essenza della Chiesa, e del suo stile di vita.
Certamente, questo stile si sviluppa, come lo vediamo attraverso i secoli. I primi Papi che risiedevano a Roma, dovevano ancora approfondire tutte le sfaccettature di questo stile. Se consideriamo l’apogeo della Romanità in Papi come Pio IX o Pio XII per esempio, notiamo come tutto questo stile sia stato arricchito nei secoli.
Coloro che avranno compreso questa verità integrante della fede, potranno gridare insieme a Santa Caterina da Siena, questa frase sulla città eterna: «pensate che questa terra è il giardino di Cristo Benedetto e il principio della nostra fede».
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La Romanità dell’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote
Dopo queste considerazioni preliminari, entriamo più nel dettaglio, e facciamo uno schizzo sulla Romanità tale quale la vediamo attraverso le annotazioni della Chiesa, nel nostro Istituto, poi nella maniera nella quale cerchiamo di viverla. In questo senso, noi siamo una simbiosi fra la grande tradizione agostiniana e tomista. La vediamo attraverso i nostri tre Patroni – San Benedetto, San Tommaso d’Aquino e San Francesco di Sales – che hanno unificato ed armonizzato questa tradizione romana attraverso la loro vita e la loro dottrina.
I- La santità della Chiesa
Prima di tutto, la santità della Chiesa ed il suo riflesso sulla Romanità dell’Istituto. Si può avere accusato la Chiesa di molte cose. E come per il nostro caro Istituto, non si è mancato di farlo. È vero che la debolezza umana non si è fermata davanti alla porta della Chiesa, noi l’abbiamo sentita ogni giorno nella nostra vita sacerdotale.
Eppure, il mistero di questa santità, espresso nel culto e nei sacramenti, non ha mai risentito della miseria umana, almeno non nella sua essenza. È perché noi vediamo la nostra Romanità espressa innanzitutto dalla cura apportata nel grande culto della Chiesa.
Quello che si fa non è mai abbastanza! Posso dirvelo, reverendi, questo vale per me e può valere anche per voi nel vostro apostolato: a volte si è tentati di fare delle eccezioni, di fare “semplice”, di dire: «Ah! Le persone non capiscono! Adesso non ho degli inservienti pronti, la corale non è pronta… non faremo lo sforzo di curare innanzitutto il culto». Però la nostra anima è fatta per il culto.
Di fatti, notiamo che il Papa Benedetto XVI e coloro che governano la Chiesa, riprendono felicemente questa tradizione e non danno la precedenza al governo a discapito del culto. I grandi Papi di altre epoche erano essi stessi più orientati verso il culto, e tutta la loro vita era regolarmente interrotta dalle grandi celebrazioni liturgiche che erano veramente l’espressione del primato romano.
C’è voluta una mentalità giansenista e pelagiana di purismo intellettuale per distruggere il grande sviluppo del culto divino, in nome di una piccola umiltà irresponsabile. Invece di spiegare e di sviluppare, si sono bruciati e distrutti molto i legami col divino.
Non ci sono scusanti per diminuire la gloria del culto. Non mi dite che i nostri fedeli non sanno cantare. Non mi dite che discendono da una tradizione irlandese, o tedesca, o che preferiscono cantare degli inni. Non mi dite che non avete il tempo di pulire il turibolo, insomma, tutte queste cose che pretendiamo di non poter fare.
A volte, certamente, ci dobbiamo adattare, ma il fine della Romanità è sempre la grande gloria di Dio. Non si cerca la propria piccola gloria umana, e nemmeno di conservare piene le proprie casse.
Con il fine di essere risparmiati, per la sicurezza umana, per non essere criticati, per non essere ridicolizzati, non si è mai diminuito il culto a Roma. A causa di tutto questo, Bossuet, ben cosciente della realtà ecclesiastica dei suoi tempi, ha saputo difendere la Chiesa con vigore contro le accuse delle sette protestanti d’essere la Babilonia dell’Apocalisse.
In effetti, se si diminuisce il culto, quello che resta, è l’umanità, e l’umanità è ben fragile, lo vediamo in molti campi nella Chiesa. Se si è diminuito il culto, che cosa resta? La natura sacerdotale peccatrice. Osserviamo un tale, che non somiglia nemmeno ad un curato, fare qualsiasi cosa all’altare; e notiamo pure che non è che un miserabile peccatore molto più chiaramente che se portasse dei bei paramenti, circondato dai fumi dell’incenso. E, lui stesso, non avendo più niente cui agganciarsi, cade più facilmente.
Credo che i grandi scandali, ben punibili, che scuotono la Chiesa, siano soprattutto dovuti al fatto che noi abbiamo diminuito la grandezza del culto a causa di una concezione umana e ci siamo piegati a questa leggerezza che ci espone alla critica del mondo.
Bossuet, che conosceva ancora il gran culto della Chiesa, anche se celebrato da vescovi peccatori ha detto chiaramente: «Nullo ergo indicio christianam Ecclesiam, nullo pastorem ullius christianae plebis expressit. Ergo doctus auctor, et quotquot ei assentiuntur, nulla vel tenui conjectura, aut papam, aut Ecclesiam romanam incusant; totaque accusatio, nullo signo fulta, mera calumnia est: quod erat demonstrandum ».
La Chiesa che celebra il culto non è giustamente la Babilonia dell’Apocalisse, perché essa ha potuto, malgrado noi e contro di noi, salvaguardare la struttura divina della sua liturgia e dei suoi sacramenti. Dobbiamo essere molto riconoscenti a Benedetto XVI di volerlo di nuovo mostrare ai razionalisti di questo mondo.
Per noi, il contributo del nostro Istituto alla santità della Chiesa è dunque il grande rimedio da portare alla grande liturgia della Chiesa romana di tutti i tempi. È nostro dovere comprendere bene ed esprimere la grandezza della divinità nelle nostre celebrazioni liturgiche.
Non è un rito di nostra invenzione, ma poiché la Chiesa è stata inviata a Roma, è un obbligo solenne per noi avere lo stesso culto. Storicamente, la Provvidenza ha voluto d’altra parte, che noi nascessimo fra Genova e Roma. Noi siamo nati all’interno della grande tradizione divinizzata da una liturgia non ordinaria, ma straordinaria, che permette al divino di essere espresso dall’umano. Il sedicente movimento liturgico degli anni ‘30 e ‘50 aveva disconosciuto questa realtà. Invece di spiegare ed approfondire, si è iniziato a sopprimere e cambiare in base al grado di miseria della volontà umana.
Costi quel che costi, nonostante la nostra miseria, noi abbiamo il dovere di esprimere la maestà della presenza di Dio attraverso la liturgia. Voglio parlarvi della mia esperienza. Una volta quando conobbi Monsignor Wach ed il Canonico Mora, assistevo alle grandi cerimonie liturgiche e, qualche volta, nella mia testa tedesca: «Oh! È troppo lungo! Alla gente non piacerà!» Ma colui al quale non piaceva, perché era impaziente, ero io e non il popolo.
Noi dobbiamo dunque educare il nostro spirito. Dio per primo, la sua glorificazione prima di tutto, il popolo ci seguirà, questo è sicuro. Anche nella più piccola delle nostre cappelle, questa maestà può essere rappresentata, a volte adattandoci diligentemente, ma sempre con premura, affinché i fedeli comprendano che quello che noi facciamo, fa parte della glorificazione di Dio per natura, e per i mezzi soprannaturali che Dio ci dona .
Noi siamo chiamati a far scendere il cielo sulla terra e non ad adattarsi all’intelligenza umana. Purtroppo, ci siamo già troppo abituati nella nostra umanità. Uno sforzo supplementare non è utile per adattarsi all’umanità, credo. In compenso, sono necessari molti sforzi per rendere Dio visibile all’interno della nostra miseria quotidiana.
II- L’apostolicità
Veniamo all’apostolicità. Qui tocchiamo un punto nevralgico, che distingue veramente l’Istituto dagli altri gruppi denominati «tradizionali». L’Istituto, con i nostri grandi Santi Patroni, intrattiene una relazione normale e distesa, cattolica, cogli Apostoli, cioè con Pietro e con i suoi successori, i vescovi.
Noi non diffidiamo di loro per principio. Non stabiliamo un magistero collaterale, non crediamo alla nostra infallibilità.
Le visite dei cardinali e dei vescovi a Gricigliano sono, per me, degli esempi chiari. Prima di ogni giudizio provvidenziale e politico, prima di ogni cordialità e gentilezza, persino prima di ogni virtù morale di carità e di pazienza, noi riconosciamo questi Cardinali o questi Vescovi come degli Apostoli del Signore, noi vediamo in loro il Signore. Vediamo anche le loro debolezze umane, ugualmente quando ci guardiamo ogni giorno allo specchio, ma sono innanzitutto degli Apostoli, dei discepoli di Cristo.
In questo aspetto, vogliamo veramente assomigliare alle prime comunità cristiane, che erano a conoscenza di tutto, e gli Apostoli non nascondevano, certo, che i discepoli di Cristo fossero degli esseri umani molto deboli, che avessero abbandonato il Signore, e l’avessero pure tradito. Ma i primi cristiani li accolsero come dei testimoni, muniti di una missione soprannaturale per la salvezza della Chiesa.
Non si criticano prima di averli venerati. Non si osserva la loro debolezza prima di aver visto in loro l’opera del Signore. Questo approccio deriva dai nostri Santi Patroni, che non hanno vissuto certamente in tempi facili con dei vescovi santi.
Questo approccio è il solo da considerarsi corretto, ed anche il più efficace. Quante volte siamo stati «accusati» di diplomazia.
Non è la diplomazia politicamente corretta, perché non cambia niente per essi, loro vedono tutto. Quante volte si è detto a Monsignor Wach: «Si cambiano le cose perché viene il tal vescovo…» No, non si cambia, ma li riceviamo come sono, nella loro apostolicità, nella loro grandezza, nel loro onore, ed essi lo notano, e ci chiamano.
È l’atteggiamento da tenere soprattutto verso il Santo Padre, anche se si chiama Paolo VI. Dobbiamo innanzitutto vedere in lui con Santa Caterina da Siena, «il dolce Cristo in terra». E Monsignor Wach ce l’ha appena detto: il potere delle chiavi non è mai diminuito, lo vediamo dal Motu proprio: una parola del Papa può cambiare la Storia. È per questo che noi l’accettiamo sempre come lui è: Pietro.
E tutto questo vale anche, reverendi, per tutte le autorità legittime. Non abbiate paura delle autorità: è ridicolo. I vostri superiori non vogliono ferirvi, non sono dei controllori di biglietti. Non dobbiamo ripiegarci su noi stessi e dare solo informazioni ben filtrate.
Bisogna semplicemente avere fede in loro, perché anch’essi hanno ricevuto una missione dal Signore. Avere paura dell’autorità significa non aver capito che cos’è l’autorità nella Chiesa.
Non è un despotismo positivista, ma è la presenza della grazia di Dio concretizzata dal potere della Chiesa. L’autorità locale del provinciale o del superiore della casa può aprire la nostra cerchia, può insegnarci la grande via romana, può legarci alla Romanità presente negli Apostoli.
Il rispetto e l’amore verso l’autorità non sono solamente un segno di buona educazione, ma anche un mezzo per sopravvivere in un mondo che vuole individualizzare e dopo averlo individualizzato, distruggere l’individuo.
III-L’unità
Parliamo dunque di unità. Sarò breve, perché, tramite la grazia di Dio, il segno romano dell’unità è molto vivo nell’Istituto. Noi abbiamo dai nostri superiori, dal nostro Fondatore e Cofondatore, un segno di unità reale, segno d’amicizia spirituale, unità di pensiero, d’agire, unità che dà la forza all’Istituto nelle peripezie della Storia.
E tutti voi, lo vedo come Monsignor Wach con molta gioia, non date solamente l’apparenza dell’unità, ma siete veramente uniti. Ci sono molte nazionalità, parliamo con molti accenti, veniamo da paesi differenti, da famiglie diverse, noi abbiamo, direi, delle esperienze differenti, abbiamo dei caratteri molto diversi.
Ci lasciano salvaguardare il nostro carattere, secondo il famoso adagio di San Francesco: «siate quello che siete, ma siatelo bene, e santamente». Noi non siamo dei legionari di Cristo, ai quali si tagliano i capelli in un certo modo, e si prescrive il gel, possiamo vivere la nostra individualità in comunione con l’Istituto, e questa unità è ancora un riflesso di quella romana.
Il Corpo di Cristo è veramente unito, non perché noi lo decidiamo o lo vogliamo, ma perché questo Corpo ha una mente visibile, che rappresenta in modo reale la mente invisibile, cioè il Signore.
L’unità del nostro Istituto non è un’unità ideologica, noi non abbiamo un fine, una bandiera politica che ci unisce per un dato momento della Storia, di modo che, se questa utilità storica è svanita, il nostro Istituto cessa di essere utile; no, l’unità è più profonda, è l’unità con la Chiesa romana, con Cristo, è l’unità che ci deriva dall’apostolicità, essa ci dà un’identità più profonda della battaglia d’un momento. Possiamo sopravvivere senza avere un nemico. È una grande grazia. Spero che questa grazia sarà scoperta da molti.
Dunque, l’unità non è fondata su delle opinioni, ma sulla grande presenza del divino nella Chiesa della quale noi facciamo parte.
L’unità del nostro Istituto conobbe le stesse origini. Il nostro Fondatore, come sapete, non ha mai seguito delle opinioni, ma ha saputo seguire con il Canonico Mora la tradizione della Chiesa.
Non ha creato niente, ma si è chinato sulla realtà della Chiesa di sempre, che è talmente forte da sopravvivere sotto uno spesso strato d’ideologia effimera che la può ricoprire durante un certo periodo. Il Papa ci mostra di nuovo la fonte di questa realtà.
Anche nella Chiesa universale, questa fonte di realtà è coperta dall’ideologia. Una crosta che faceva dimenticare la carne. Ma noi sappiamo vedere più nel profondo. Non è la secca crosta intellettualista che conta, è l’essenza che resta al di sotto.
È per questo, che l’Istituto non è un agglomerato di opinioni personali e di predilezioni private per una certa visione politica, ma la continuazione della Romanità di sempre, approfondita dall’opera dello Spirito Santo durante i secoli.
L’Istituto non è il sole, ma la luna, come la Santa Vergine, uno specchio della grande unità romana, che supera le opinioni, le nazioni, le mode, e le preferenze personali. Così, questa unità deriva dall’unione fra l’autorità ecclesiastica e l’umile sottomissione sotto la direzione della grande tradizione.
L’unità miracolosa del nostro piccolo Istituto è il frutto dello spirito d’obbedienza intelligente di chi non ha mai preferito le loro opinioni da abbandonare la grande unità di stile della vita della Chiesa.
IV- Cattolicità ed Universalità
Parliamo per finire della cattolicità e dell’universalità. La santità liturgica, l’apostolicità d’autorità divina, e l’unità del corpo mistico ci conducono finalmente alla maestà della cattolicità universale della Chiesa, presente nel nostro Istituto.
Ho già parlato dello stupefacente plurinazionalismo dell’Istituto voluto fin dall’inizio da Dio Onnipotente. Notiamo che la nostra crescita eccede in questo momento il numero dei nostri membri. In rapporto ad altri gruppi numericamente molto più estesi, questo fatto ci fa sembrare come nella famosa favola nella quale il riccio è sempre presente, mentre la lepre arriva troppo tardi.
Notiamo che sempre più i Vescovi, da diverse parti del mondo, ci chiedono assistenza. Tutto questo dimostra che noi facciamo parte della grande cattolicità romana, e che ci troviamo nel cuore della Chiesa, senza peraltro, pretendere di essere la Chiesa. Ma questo, è evidente.
Quello che esalta il carisma dell’Istituto, è il dono di Dio della liturgia e della vita della Chiesa romana, che il nostro Fondatore ha saputo accogliere, nella sua grandezza. Dobbiamo avere un respiro soprannaturale. Respiriamo con dei polmoni divini. Nella cattolicità della Chiesa vive l’universalità e l’onnipresenza di Dio.
Non dobbiamo pensare secondo l’interesse del nostro piccolo apostolato. Non dobbiamo dipendere dai limiti puramente umani, dalle paure sociali, dalle piccole preoccupazioni, non dobbiamo permettere al diavolo di farci affogare nel bicchiere sporco delle controversie d’ogni giorno, delle nostre piccole opinioni quotidiane, dei nostri pensieri egoisti, delle nostre ansie borghesi.
Il Signore ha salvato il mondo. La Chiesa è per tutti gli uomini di buona volontà. Non è limitata, ma è il battello grandioso che fluttua sull’oceano dell’amore universale.
Dobbiamo essere profondamente riconoscenti del fatto che il nostro Fondatore abbia avuto la visione della Chiesa. Né le piccole cose, né le cose possibili, né quelle calcolabili, né quelle circoscritte, né le conformi, né le accettabili, né quelle politicamente corrette hanno guidato i passi di Monsignor Wach.
La misura della Chiesa non è l’umano, ma il divino, è il grande sacrificio, non il piccolo. La misura non è la fredda ragione del calcolabile, ma la carità incommensurabile del Sacro Cuore.
Questa grandezza che non deriva da noi, non deve mai lasciarci. Noi dobbiamo crescere nella cattolicità, nella grandezza personale; non nel crederci dei grandi, ma accettando questa grandezza come un dono della grazia. Nessun attaccamento alle piccolezze, alcuna gelosia degli uni verso gli altri, niente politica all’interno degli apostolati.
Dio non è questo, Dio è più grande. Noi dobbiamo essere e diventare sempre più cattolici.
L’aria della grande eternità può solamente riempire le nostre anime che sono, come dice il dottore angelico: «quodam modo omnia». La nostra anima contiene il tutto e può contenere il tutto se noi non ci limitiamo al piccolo.
L’Istituto ci insegna ad avere delle grandi anime, aperte alla grazia incommensurabile di Dio, penetrate dalle grandi verità, che gioiscono della grandezza del bello nella liturgia solenne, nella musica sacra, nell’arte come riflesso del divino. Dobbiamo avere uno stile di vita nobile e generoso, senza pensare a noi stessi, ma al fine della Chiesa di portare il cielo sulla terra, e tutto al cielo.
D) Conclusione
Ecco solamente alcuni aspetti, e non l’integralità della Romanità di sempre, come noi la vogliamo vivere all’interno del nostro Istituto. Se il santo di oggi fosse romano, sarebbe in questo caso universale. Dice a proposito della grandezza dell’apostolicità, della santità, della cattolicità :
«qualem montem habemus Christum ?
Ecclesiam habemus, ecclesiam amemus
Crevit – che dimostra chi è il signore della Chiesa – et implevit mons iste universum orbem terrarum !
Questo deve essere il desiderio del nostro Istituto, di contribuire umilmente perché il monte, che è rappresentato dal Signore e dalla sua Chiesa cresca fino a riempire la terra intera. Ed è per questo motivo che noi, con tutta la Chiesa, cantiamo con gratitudine l’inno della Romanità, perché Dio, attraverso la santità della Chiesa romana, ci ha strappato dai limiti della nostra miseria:
“O Roma felix… ceteras excellis orbis una pulchritudines !!!”